Dagli albori della storia
dell’uomo nella sua espressione sociale, chi si cimenta in politica
adotta uno stile di comunicazione che si uniforma ad alcuni “canoni”
consolidatisi nel tempo. Sono rimasti celebri, nell’antichità,
alcuni archetipi come il “retore pomposo” alla Cicerone, il
“falsamente spontaneo e populista ” alla Demostene, il pragmatico
“asciutto ed essenziale” alla Giulio Cesare e via così. Scopo
ultimo nella comunicazione politica è sempre stato convincere il
popolo della bontà delle proprie idee, della propria onestà e,
spesso, della malvagità e disonestà dell’avversario politico.
Arrivando ai nostri
giorni, i vecchi archetipi, sempre in voga, si sono arricchiti di
sfumature che tengono conto della situazione socio-culturale del
momento, dei nuovi mezzi di comunicazione e del “comune sentire”
che un politico scaltro dovrebbe fiutare per tempo.
Abbiamo così provato ad
analizzare gli stili di comunicazione adottati da politici di qualche
anno fa, ma anche più recenti e nuovissimi, per coglierne tecniche,
sfumature e linguaggio non verbale.
Giulio Andreotti:
Il cinismo curiale del divo Giulio lo rendeva simpatico. L’ironia e
lo humour “nero” erano una sua caratteristica che, in fin dei
conti lo faceva apprezzare anche dai suoi avversari. La sua
comunicazione avveniva a vari “livelli”. Cosicché era compreso
dal popolano privo di istruzione e dal fine intellettuale. Il
problema è che capivano cose differenti.
Antonio di Pietro: Il
“Bertoldo” della politica ha fondato il suo stile di
comunicazione su un voluto “semi-analfabetismo” che lo faceva
apparire come lo scaltro contadino, figlio del popolo, nemico di
tutti i prepotenti e disonesti. Scaturito dalla prima ondata di
antipolitica scatenatasi a seguito di Tangentopoli, ha basato la sua
fortuna sul forte accento molisano, una grammatica imperfetta e una
mimica facciale e gestuale da commedia dell’arte. Della serie “cà
nisciun è fess”!
Silvio Berlusconi:
in assoluto è il più abile comunicatore della politica
contemporanea. La sua lunga frequentazione degli ambienti dello
spettacolo e un innato talento da showman hanno affinato in lui la
capacità di sintonizzarsi (quasi) sempre con il sentire del ceto
medio, delle casalinghe, dei pensionati, di quell’Italia, insomma,
che ha bisogno di credere in un capo bonario, un “self made man”
che rappresenta il lato umano del capitalismo, un leader che si mette
nei panni dell’italiano middle class e gli parla con un linguaggio
semplice, populista, comprensibile. Di lui un pezzo dell’Italia si
fida a prescindere. Della serie “il marito tradito che perdona più
e più volte la moglie bella e fedifraga anche quando scopre l’amante
nell’armadio”.
Umberto Bossi. Con Berlusconi e
Grillo forma la triade populista della politica contemporanea in
Italia. I contenuti sono diversi, così come il tono e il linguaggio,
ma i tre hanno sicuramente qualcosa in comune. La capacità di
affascinare il popolo. Chi lo fa con toni suadenti e un sorriso da
“pianista di piano bar” come S.B., chi col tono truculento da
“barbaro sognante”, la bava alla bocca e lo spadone in mano,
utilizzando il lessico, le semplificazioni manichee e la violenza
verbale del cliente del bar sport, come Umberto, e chi, come Grillo,
è una strana sintesi dei due precedenti. Della serie “il popolo è
un aggregato emotivo”
Beppe Grillo. La terza persona della
trinità populista. Utilizza gestualità, linguaggio e carisma
mutuati dalla lunga esperienza sui palcoscenici in centinaia di “one
man show”. Spaventa, affascina, sa (o sapeva) dire con rabbia
quello che pensa la gente comune, toccando le corde
dell’esasperazione e della voglia di giustizia sociale. Definito
come “L’Uomo Qualunque 2.0”, il suo stile di comunicazione è
urlato, violento. Negli ultimi tempi ha perso un po’ dell’ironia
intelligente che lo contraddistingueva, a favore di una leadership
totalitaria e senza possibilità di replica. Della serie “Ego sum
veritas”
Sindacalisti vecchi e nuovi. Le
tecniche di comunicazione dei sindacalisti sono cambiate negli anni.
A volte hanno fatto “giri immensi” e poi sono ritornate. Dallo
stile sobrio, un po’ triste e berlingueriano di Luciano Lama (pipa
inclusa), alle giacche di cachemire di Bertinotti, passando per la
“democristianità” di Marini, il linguaggio dei sindacalisti
italiani ha cercato di adeguarsi alla congiuntura economica del
momento. I difensori dei lavoratori sono transitati dalla lotta dura
della cultura operaistica degli anni di piombo al dialogo
possibilista degli anni ’90 e Duemila. Il linguaggio in passato era
affidato ad alcune parole “chiave”, agli slogan da usare sempre
perché non necessitavano di spiegazioni. Negli anni della crisi è
ritornato lo stile “Cipputi” della Camusso e Landini. Ultimamente
mi ha molto colpito un’intervista fatta dall’ex sindacalista
CGIL Guglielmo Epifani, nelle vesti di segretario PD, in un lussuoso
salotto borghese. Della serie “Tutto il potere all’alta
borghesia”.
Alfano, Maroni, Letta & C. La
timida comunicazione dei numeri 2!