martedì 4 giugno 2013

Come comunicano i politici. Vecchio e nuovo stile nel linguaggio della “casta”.

Dagli albori della storia dell’uomo nella sua espressione sociale, chi si cimenta in politica adotta uno stile di comunicazione che si uniforma ad alcuni “canoni” consolidatisi nel tempo. Sono rimasti celebri, nell’antichità, alcuni archetipi come il “retore pomposo” alla Cicerone, il “falsamente spontaneo e populista ” alla Demostene, il pragmatico “asciutto ed essenziale” alla Giulio Cesare e via così. Scopo ultimo nella comunicazione politica è sempre stato convincere il popolo della bontà delle proprie idee, della propria onestà e, spesso, della malvagità e disonestà dell’avversario politico.

Arrivando ai nostri giorni, i vecchi archetipi, sempre in voga, si sono arricchiti di sfumature che tengono conto della situazione socio-culturale del momento, dei nuovi mezzi di comunicazione e del “comune sentire” che un politico scaltro dovrebbe fiutare per tempo.

Abbiamo così provato ad analizzare gli stili di comunicazione adottati da politici di qualche anno fa, ma anche più recenti e nuovissimi, per coglierne tecniche, sfumature e linguaggio non verbale.



Giulio Andreotti: Il cinismo curiale del divo Giulio lo rendeva simpatico. L’ironia e lo humour “nero” erano una sua caratteristica che, in fin dei conti lo faceva apprezzare anche dai suoi avversari. La sua comunicazione avveniva a vari “livelli”. Cosicché era compreso dal popolano privo di istruzione e dal fine intellettuale. Il problema è che capivano cose differenti.


Antonio di Pietro: Il “Bertoldo” della politica ha fondato il suo stile di comunicazione su un voluto “semi-analfabetismo” che lo faceva apparire come lo scaltro contadino, figlio del popolo, nemico di tutti i prepotenti e disonesti. Scaturito dalla prima ondata di antipolitica scatenatasi a seguito di Tangentopoli, ha basato la sua fortuna sul forte accento molisano, una grammatica imperfetta e una mimica facciale e gestuale da commedia dell’arte. Della serie “cà nisciun è fess”!


Silvio Berlusconi: in assoluto è il più abile comunicatore della politica contemporanea. La sua lunga frequentazione degli ambienti dello spettacolo e un innato talento da showman hanno affinato in lui la capacità di sintonizzarsi (quasi) sempre con il sentire del ceto medio, delle casalinghe, dei pensionati, di quell’Italia, insomma, che ha bisogno di credere in un capo bonario, un “self made man” che rappresenta il lato umano del capitalismo, un leader che si mette nei panni dell’italiano middle class e gli parla con un linguaggio semplice, populista, comprensibile. Di lui un pezzo dell’Italia si fida a prescindere. Della serie “il marito tradito che perdona più e più volte la moglie bella e fedifraga anche quando scopre l’amante nell’armadio”.




Umberto Bossi. Con Berlusconi e Grillo forma la triade populista della politica contemporanea in Italia. I contenuti sono diversi, così come il tono e il linguaggio, ma i tre hanno sicuramente qualcosa in comune. La capacità di affascinare il popolo. Chi lo fa con toni suadenti e un sorriso da “pianista di piano bar” come S.B., chi col tono truculento da “barbaro sognante”, la bava alla bocca e lo spadone in mano, utilizzando il lessico, le semplificazioni manichee e la violenza verbale del cliente del bar sport, come Umberto, e chi, come Grillo, è una strana sintesi dei due precedenti. Della serie “il popolo è un aggregato emotivo”





Beppe Grillo. La terza persona della trinità populista. Utilizza gestualità, linguaggio e carisma mutuati dalla lunga esperienza sui palcoscenici in centinaia di “one man show”. Spaventa, affascina, sa (o sapeva) dire con rabbia quello che pensa la gente comune, toccando le corde dell’esasperazione e della voglia di giustizia sociale. Definito come “L’Uomo Qualunque 2.0”, il suo stile di comunicazione è urlato, violento. Negli ultimi tempi ha perso un po’ dell’ironia intelligente che lo contraddistingueva, a favore di una leadership totalitaria e senza possibilità di replica. Della serie “Ego sum veritas”



Pier Luigi Bersani. L’esempio vivente di come una brava persona possa cadere nelle mani di spin doctors sbagliati. Incomprensibilità dei messaggi, accompagnati da gestualità e micro espressioni di rassegnazione. Della serie “Che ci posso fare se non mi capiscono?”



Sindacalisti vecchi e nuovi. Le tecniche di comunicazione dei sindacalisti sono cambiate negli anni. A volte hanno fatto “giri immensi” e poi sono ritornate. Dallo stile sobrio, un po’ triste e berlingueriano di Luciano Lama (pipa inclusa), alle giacche di cachemire di Bertinotti, passando per la “democristianità” di Marini, il linguaggio dei sindacalisti italiani ha cercato di adeguarsi alla congiuntura economica del momento. I difensori dei lavoratori sono transitati dalla lotta dura della cultura operaistica degli anni di piombo al dialogo possibilista degli anni ’90 e Duemila. Il linguaggio in passato era affidato ad alcune parole “chiave”, agli slogan da usare sempre perché non necessitavano di spiegazioni. Negli anni della crisi è ritornato lo stile “Cipputi” della Camusso e Landini. Ultimamente mi ha molto colpito un’intervista fatta dall’ex sindacalista CGIL Guglielmo Epifani, nelle vesti di segretario PD, in un lussuoso salotto borghese. Della serie “Tutto il potere all’alta borghesia”.

Alfano, Maroni, Letta & C. La timida comunicazione dei numeri 2!